Un Luogo In Cui Resistere

“Rari sono i luoghi in cui resistere”. E’ parafrasando Andrea Zanzotto che è stato dato un nome a questo volume. E questa è solo una delle frasi che possono saltare all’occhio sfogliando a casaccio il volume, ma sintetizza in maniera diretta, con un invito alla riflessione, ciò che si può percepire ovunque addentrandosi nei paesaggi di Sagron Mis, con le sue genti, i suoi “quattro gatti” ma anche i suoi “quattro matti”. Uniti dalla comune predisposizione a resistere, scegliendo di abitare in un luogo che fatica moltissimo a sopravvivere alla contemporaneità. Ingabbiato in una terra di mezzo che ha abbandonato il suo passato alla ricerca di chissà quale futuro e che solo riprendendo in mano la sua storia può cercare una via di scampo alla sua fine.

“Un luogo in cui resistere”, scritto dalla Cooperativa di ricerca TeSto e fortemente voluto dal Comune di Sagron Mis, si presenta come una grande riflessione sui temi della trasformazione dei paesaggi di Sagron Mis, e quindi del suo territorio, di chi lo abita e del rapporto che intercorre tra i due elementi.

 

Partiamo allora dalla struttura del libro, quella “guida alla lettura” che ci aiuta prima di tutto a capire come “Un luogo in cui resistere” va affrontato. Scopriamo quindi che i vari “capitoli” non sono altro che dei punti di osservazione, dai quali è possibile immergersi nella realtà di Sagron Mis, anche solo virtualmente, ragionando sulle curatissime parti testuali, integrate con numerosi grafici, e rese di immediata comprensione dalle fotografie di Luigi Valline, che si impongono andando ad occupare gran parte della pagina. E per non limitarsi alla nostra piccola realtà, troviamo anche un piccolo specchietto di approfondimento che cerca di trasferire la situazione specifica di Sagron Mis ad un più generico contesto alpino. Il tutto giocato tra passato, presente ed un possibile (probabile?) scenario futuro.

 

Una serie di paesaggi affiancati, messi l’uno vicino all’altro, e raccontati con competenza e realismo, a volte incoraggiante, a volte addirittura catastrofico (vedi il capitolo “L’apocalisse dei campi”), che riesce a suscitare anche un po’ di tristezza per chi Sagron Mis lo abita e lo ama, e capisce quanto in molti casi, qui, la civiltà si sia arresa e la natura si stia riprendendo il suo spazio. Ed ecco che il libro, in gran parte delle sue pagine non si limita a mere descrizioni di come il territorio sia cambiato, l’ambiente si sia trasformato, ecc. Ma prova ad andare oltre, con continui spunti e ragionate riflessioni. Alberto Cosner, uno degli autori, a proposito dell’involuzione del territorio da superficie prativa a favore dei boschi di neoformazione si chiede:

“Ma è degenerato? Se visto dagli occhi della natura […] assolutamente no. […] Se guardato dagli occhi dell’uomo esiste però un degrado sensibile a cui non si può non dare peso.” E sempre nell’illuminante pezzo di pagina 23 intitolato “Una nuova periferia alle porte” ci invita a rivalutare ciò che istintivamente interpretiamo in maniera negativa (“il bosco come periferia […] da marginalizzare, una barriera-ostacolo da attraversare con sentieri, non più un attore principale, un compagno di esistenza con cui vivere e con-vivere.”).

 

La dinamica bosco-prato è solo uno dei temi presi in considerazione nel libro per provare a dare un contorno ai paesaggi di Sagron Mis. Ma per comprenderne l’importanza, basti pensare che questa è trattata in ben tre capitoli, da altrettanti autori. Oltre ad Alberto Cosner infatti, di bosco e di prato ci parlano Cesare Lasen e Maurizio Salvadori, che con toni per nulla ottimistici ci propongono due esempi lampanti di come i metodi di sfalcio e concimazione possano incidere sul territorio, prendendo come esempio virtuoso i Casère: “prati magri che in gradienti multiformi sono sempre ricchi di biodiversità”, tali grazie ad una falciatura regolare associata ad una scarsa o nulla concimazione; in contrasto con i prati che circondano Mis, a servizio degli impianti zootecnici e quindi condizionati dalle sue logiche fatte di eccessiva fertilizzazione con liquami, da pascolamento irrazionale e un generale ingrassamento del terreno che permette solo a poche specie floreali di crescere, penalizzando la biodiversità, la qualità del foraggio, oltre a creare problemi più direttamente influenti sulla vita a Sagron Mis, come l’inquinamento delle falde acquifere di Mis del 1986 che costrinse a delocalizzare le opere di presa. Tra i due estremi c’è l’abbandono diffuso e totale dell’attività di sfalcio, che lascia spazio ad un’evidente e sempre più incontrastabile avanzata del bosco verso i centri abitati e non solo.

 

Simone Gaio ci racconta invece delle caratteristiche peculiari dei nostri insediamenti, di come sono nati, di come si sono sviluppati e… di come andrà a finire, con l’immaginario (ma assolutamente possibile) estratto dalla rivista “Scenari” dell’aprile del 2213, che si chiude sentenziando la positività del ritorno della foresta ai danni dell’uomo “rivelatosi incapace di preservare quell’angolo di mondo artificiale che inizialmente era riuscito a ritagliarsi”. Un importante spazio è dato anche all’agricoltura, nella parte curata da Angelo Longo, che spiega come in appena un secolo o poco più sia passata da attività predominante a semplice svago da tempo libero, sotto i colpi dell’emigrazione stagionale dei seggiolai prima, di quella stabile poi, e infine dalle nuove dinamiche economiche mondiali che si sono tradotte in un generale svanimento del bagaglio di conoscenze agricole costruito nei secoli precedenti. Sull’emigrazione, stabile e permanente, si concentra molto anche Giuseppina Bernardin, nella sua parte intitolata “Donne e uomini”, dove tra un calo demografico e l’altro, troviamo anche un piccolo elogio alla comunità di Sagron Mis, definita “più forte e unita che in altri paesi di Primiero” probabilmente per forza di cose, l’unico modo per sopravvivere, l’unica via per resistere. Non mancano però le considerazioni “drammatiche”, quando parlando di allevamento, Giuseppina Bernardin e Angelo Longo si soffermano su un dato che non ha bisogno di tante spiegazioni: “dal 1961 al 2010, in soli cinquant’anni, si passa dai 277 capi bovini agli zero registrati nel censimento 2010.”

 

Affrontate e superate le riflessioni che il libro ci propone, arriviamo a scoprire che “Un luogo in cui resistere” è anche e soprattutto un viaggio da vivere tra i boschi, gli abitati, i prati e le (ex) campagne di Sagron Mis. Una guida non proprio tascabile per vivere il territorio, o semplicemente per visitarlo, in maniera più consapevole, con uno sguardo completamente diverso da quella sensazione di fascinosa sudditanza che avviene immancabilmente ogni volta che ci si appresta a contemplare un qualsiasi panorama dolomitico. Col libro in mano, si potrà magari abbassare per un attimo lo sguardo dalle cime, quei mostri sacri apparentemente immutati ed immutabili, verso un paesaggio in perpetua trasformazione, in una continua lotta tra natura e cultura, a volte in armonia, più spesso in contrasto.

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