Dopo aver raccolto la golva, spesso capita che dai sant, ad inizio novembre, si presentino le prime nevicate, indice inesorabile che si è entrati nella brutta stagione? Tutt’altro. Perché mancano pochissimi giorni all’istadèla de San Martin, che la dura trèi dì e en cin: la cosiddetta “estate di S.Martino, quel periodo di bel tempo che spesso si verifica – e quest’anno, con un po’ di anticipo, non ha fatto eccezione – attorno al giorno di S.Martino, perfettamente celebrato in una delle più famose poesie dell’Ottocento a firma di Giosuè Carducci, intitolata proprio San Martino.
E’ solo un’illusione però, dato che da San Martin l’invèrn le davesìn (a San Martino l’inverno è vicino), un po’ quello che la lingua italiana ha fatto proprio con il più antropico “A San Martino si veste il grande ed il piccino”).
Come noto, nelle nostre zone il giorno di San Martino è tradizione che i bambini passino in rassegna tutte le case del paese (e non solo) cantando alcune strofe della canzone dedicata al santo, chiedendo in cambio un po’ di minèla (se ancora non conoscete questa tradizione, date un’occhiata qui e qui). Interessante è anche scoprire che questo giorno è festeggiato in molte altre parti del mondo, nei modi più disparati: dall’oca arrostita dei paesi germanici all’assaggio del vino novello in Italia.
Novembre però non è solo San Martino con la sua estate; prevalentemente infatti è il mese in cui si entra nella brutta stagione, in cui la fardìma si tramuta in invèrn, il mese in cui il paesaggio lascia improvvisamente i suoi mille colori autunnali abbandonandosi ad un bianco terribilmente gelido. E’ il mese in cui il sole diviene ogni giorno più timido, nascondendosi sempre più a lungo dietro le massicce crode del Cimonega, e allora, ecco che dai santi la siarpa e i guanti, per non trovarsi impreparati, mentre il giorno successivo è più variabile: el dì dei mòrt o che el dreža o che el stòrž, l’11 novembre invece, giusto per ritornare in tema, è la neve in prima persona che avverte: da San Martin o mi o i me fantolìn; quella stessa neve che a fine mese scioglie tutti dubbi: da Sant’Andrea no le da se far maravéa, da Nadal senža fal.
E allora prepariamoci assieme, imbacuccati davanti al fuoco di un qualsiasi larìn o spolèr, infreddoliti e stanchi dopo una giornata faticosa, a guardar fuori dalla finestra la sera calare, esorcizzando un altro lungo inverno, con ben impresse queste altre parole che la cultura popolare ha voluto trasmetterci: co sié sula banca del larìn, stèvene tuti davesìn.